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mercoledì 25 maggio 2016

Il culto del corpo. Una prospettiva genealogica e biopolitica

di Riccardo Campa
1. Premessa
Il culto del corpo nella società contemporanea è un fenomeno che è stato osservato e analizzato da molti studiosi. Personaggi dello sport e dello spettacolo sono idolatrati, da pubblico e critica, per le loro capacità atletiche e professionali o per il loro aspetto fisico.
Si assiste a una continua esibizione di corpi perfetti sui media per veicolare messaggi pubblicitari. Le stesse persone comuni – in un tentativo di emulazione – dedicano gran parte del tempo alla “manutenzione” e all’esibizione del proprio corpo. Attività sportive non agonistiche finalizzate all’abbellimento dei corpi (fitness e body building in primis), regimi dietetici personalizzati, uso di prodotti cosmetici, stili di vita ritenuti salutari, assunzione di integratori alimentari per aumentare memoria e attenzione, interventi di chirurgia plastica per finalità estetiche, piercing e tatuaggi, accurata scelta dell’abbigliamento volta ad evidenziare peculiari caratteristiche anatomiche dei corpi, medicina e chirurgia preventiva, sistematica riproduzione fotografica dei propri corpi (i cosiddetti selfie), perfezionamento delle immagini dei corpi tramite Photoshop o altri programmi grafici, copiosa diffusione in rete delle rappresentazioni iconografiche. Queste sono solo alcune delle attività che caratterizzano la vita quotidiana di molti cittadini dei paesi occidentali e di altri paesi industrializzati.
Questo fenomeno, come altri, appare del tutto ovvio a chi vi è immerso. Come notava Marshall McLuhan, «una cosa di cui i pesci non sanno assolutamente nulla è l’acqua». A mostrare ai cittadini europei e americani l’acqua culturale in cui nuotano, hanno contribuito gli immigrati mediorientali e nordafricani. Vedere donne coperte dalla testa ai piedi, con burqa e chador, camminare nelle vie delle città occidentali, ha fatto capire a molti cittadini che l’esibizione del corpo è un tratto culturale autoctono e non un’esigenza naturale. Attraverso l’incontro-scontro delle culture, ciò che era già noto agli studiosi più attenti è entrato nelle coscienze della gente comune.
Cade in errore, dunque, chi pensa che prestare attenzione alla bellezza e alla forza dei corpi rappresenti uno scivolamento nel frivolo. Non lo è affatto, soprattutto se si comprende lo stretto rapporto che intercorre non soltanto tra corpo e cultura, ma anche tra corpo e potere. Parlare di corpi, di corpi e potere, di potere sui corpi e di potere dei corpi, significa porsi una questione di capitale importanza. Anche perché, intorno alla questione del corpo, si registra una notevole dissonanza assiologica nella stessa società occidentale. Per qualcuno, la “manutenzione” del corpo è un sano e gioioso atteggiamento verso la vita, piena accettazione dell’esistenza in questo mondo, via maestra per trovare anche un equilibrio psichico, secondo il noto motto di Giovenale: Mens sana in corpore sano. Per qualcun altro è invece un’insana e maniacale ossessione, vuota e fugace rincorsa dell’effimero, edonismo senza profondità che distoglie dai valori autentici.
In questo articolo, seppure in modo necessariamente frammentario, intendiamo portare in superficie alcuni risvolti filosofici e sociologici del culto del corpo: i meccanismi che lo generano e quelli che lo reprimono, le forme che concretamente assume, il suo possibile sviluppo in relazione all’irrompere sulla scena di nuove tecnologie del bíos. Sul piano metodologico, procederemo mettendo a confronto alcune narrazioni già emerse nel corso della storia del pensiero occidentale, per poi provare ad abbozzare considerazioni più generali, legate all’attualità, nelle conclusioni. L’approccio che adotteremo è quello foucaultiano dello “scavo archeologico”, ossia un percorso di ricerca che procede a ritroso, dal presente al passato, dalla superficie alla profondità, da ciò che vediamo a occhio nudo a ciò che è nascosto nelle pieghe della storia, per inquadrare la questione in prospettiva genealogica.

2. Il culto del corpo come deriva della società liquida
Un sociologo contemporaneo che ha messo al centro del proprio discorso la questione del corpo è Zygmunt Bauman. Sul piano metodologico, lo studioso polacco può essere considerato un “sociologo impressionista”. Costruisce una propria narrazione basandosi su ciò che vede attorno a sé e mettendo a confronto le proprie osservazioni con le teorie degli studiosi che lo hanno preceduto. Non utilizza dati statistici, questionari, interviste, ossia le tecniche di ricerca oggi dominanti nei dipartimenti di sociologia. Si muove nel solco di quello che, senza dubbio, è stato il capostipite dei sociologi impressionisti: Georg Simmel. Nella sociologia impressionistica, la mancanza di precisione scientifica è spesso compensata dal talento letterario, dalla qualità estetica del testo. E poiché ogni modo di vedere è un modo di non vedere, è forse un bene che gli studiosi si dividano il lavoro e si pongano di fronte alla società sia con lo sguardo clinico dello scienziato, sia con lo sguardo olistico dell’artista.
Bauman considera il culto del corpo come la conseguenza ineluttabile della liquefazione della società. Ai suoi occhi, si tratta dunque di un fenomeno inerente alla deriva postmoderna della società occidentale. Lo studioso polacco cerca di dimostrare la propria tesi mettendo a confronto la società del XIX secolo e quella del XXI secolo, assumendo che lo spirito della prima sia stato adeguatamente colto da Èmile Durkheim e quello della seconda da lui stesso.
Durkheim notava che è la società il corpo collettivo che ripara l’individuo dall’orrore della propria transitorietà, giacché precede la nascita e sopravvive alla morte degli individui che la compongono. In questa concezione “sociologistica”, la società è un dato reale, mentre gli individui sono mere astrazioni, in quanto determinati dalle istituzioni sociali, dalle norme, dagli usi. Se il corpo sociale è il dato reale, l’attenzione eccessiva al corpo individuale e ai suoi soddisfacimenti rappresenta il trionfo dell’effimero.
Bauman sottolinea che, ai nostri giorni, la situazione appare in una luce completamente diversa, giacché in quella che lui chiama “modernità liquida” le istituzioni sociali appaiono ancora più effimere dello stesso corpo umano e dei suoi soddisfacimenti. Bauman (2011: 214) nota che «la durata della vita è un concetto relativo, e il corpo mortale è oggi forse l’entità di più lunga vita (di fatto, la sola entità la cui aspettativa di vita tende a crescere col passare degli anni). Il corpo, potremmo dire, è diventato l’ultimo rifugio e santuario di continuità e durata; qualunque cosa possa significare l’espressione “di lungo periodo”, difficilmente può superare i limiti tracciati dalla mortalità corporea».
In effetti, un individuo centenario nato a Varsavia all’inizio del XX secolo, si è trovato a essere suddito dell’Impero zarista fino al 1918, cittadino della Seconda Repubblica di Polonia fino al 1939, suddito del Terzo Reich fino al 1945, cittadino di uno stato socialista – la Repubblica Popolare di Polonia – fino al 1989, cittadino di uno stato democratico-liberale autonomo per qualche anno, e cittadino dell’Unione Europea dal 2004. Il suo corpo, pur martoriato dagli anni, è durato senz’altro di più di qualsiasi istituzione alla quale è appartenuto.
Bauman non contesta la denuncia dell’effimero, ma constata che il corpo «sta diventando l’ultima trincea dell’incolumità, una trincea esposta a un continuo bombardamento nemico, o l’ultima oasi tra sabbie mobili spazzate dal vento. Da qui la rabbiosa, ossessiva, febbrile e nervosa preoccupazione per la difesa del corpo. Il confine tra il corpo e il mondo esterno è una delle frontiere odierne maggiormente vigilate».
Il sociologo polacco sottolinea anche un parallelo tra la concezione del corpo e la concezione della comunità. Così come gli individui tendono a proteggere maniacalmente gli orifizi corporei (i punti di ingresso) e le superfici corporee (i punti di contatto) e talvolta cadono in preda all’ansia, per via della consapevolezza della morbilità e della mortalità, allo stesso modo il corpo collettivo, la comunità, tende a proteggersi da intrusioni esterne. In altre parole, «il corpo e la comunità sono gli ultimi avamposti difensivi nel sempre più deserto campo di battaglia su cui infuria quotidianamente e pressoché senza posa la guerra per la certezza, la sicurezza e l’incolumità».
Bauman parla di “solitudine del corpo e della comunità” come di un tratto essenziale della modernità liquida. Secondo questo studioso, il trasferimento dell’attenzione dell’individuo dalla società complessiva al proprio corpo o alla propria comunità etno-linguistica è anche la risultante della politica neoliberista: nel momento in cui lo Stato-nazione si dissolve nella società globale – nell’Impero, direbbero Toni Negri e Michael Hardt – e ipso facto elimina o svende tutti gli strumenti che ne fanno dispensatore di certezza e sicurezza, spinge inevitabilmente i propri cittadini a ripiegare su se stessi. Ripiegando su se stessi, gli abitanti della modernità liquida sono posti di fronte alla loro fragilità, o meglio messi di peso davanti al dato reale della loro fragilità biologica, che prima era offuscato da sentimenti di appartenenza ad entità eterne o millenarie.
Qui si innesta la ricerca del “potenziamento umano”, ovvero di un rimedio a questa fragilità costitutiva, attraverso il superamento degli stessi limiti biologici della specie (Campa 2011, 2013 a, 2015 a). Per Bauman, la difesa del corpo non è risolutiva del problema, giacché qualunque intervento protettivo non fa che aumentare l’ansia degli individui, precipitandoli in un circolo vizioso senza fine. Al contrario, i bioingegneri impegnati sul fronte del potenziamento umano ritengono che la soluzione tecnica sia a portata di mano, mentre le narrative che la denigrano in nome di valori “più alti” sono soltanto “teorie consolatorie”. Detto in parole semplici: per i bioingegneri, gli individui e i loro corpi sono ciò che è reale, mentre le astrazioni sono semmai le entità collettive. Perciò, anche se tratta di una lotta senza fine, cercare il più possibile di potenziare e rendere longevi i corpi individuali è l’unica cosa che ha davvero senso.
Questo dibattito lo ritroviamo anche nell’ambito della bioetica. L’idea che il culto del corpo rappresenti una forma di nichilismo, di negazione dei valori autentici, di scivolamento nell’effimero, è fatta propria anche dalla bioetica cattolica. Nel 2005, monsignor Elio Sgreccia, nella veste di presidente della Pontificia Accademia per la vita, presentando la XI assemblea generale del suo dicastero, ha lanciato un vero e proprio anatema contro “la religione del corpo”. Ha criticato l’Organizzazione Mondiale della Sanità per avere avvallato questa filosofia del benessere edonistico, definendo la salute come «completo benessere di natura fisica, psichica e sociale». Un valore che sarebbe utopico e mitico. Secondo Sgreccia, la “religione della salute” e la “ricerca esasperata del benessere” sono l’altra faccia della cultura della morte, giacché edonismo e benessere esasperano la cura del corpo a danno dello spirito, tanto da giustificare pratiche come l’eutanasia, l’eugenismo e l’aborto (Libero 2005, Sgreccia 2005).
Di tutt’altro orientamento la bioetica laica, che notoriamente fa proprio il principio di libertà di John Stuart Mill: «Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano». Partendo da questo principio, segue anche una generale apertura nei confronti dei cosiddetti enhancers, ovvero delle tecnologie che potenziano le prestazioni del corpo e della mente. Sul sito della Consulta di bioetica (2016) leggiamo:
L’enhancement in senso ampio include tutti i mezzi e le tecnologie utilizzate per migliorare le nostre prestazioni (come ad esempio l’assunzione di caffeina, di integratori vitaminici e ormoni, ma secondo alcuni anche l’uso di lenti a contatto o di scarpe da corsa), mentre in senso stretto si riferisce agli sviluppi tecnologici e bio-medici più recenti (smart drugs, manipolazioni di embrioni, nanotecnologie)… Esistono fondamentalmente tre tipi di enhancers: enhancers che hanno un effetto limitato nel tempo (si pensi alle cosiddette “smart drugs” come Ritalin e Modafinil, originariamente pensate per curare l’iperattività e la narcolessia e utilizzate adesso per aiutare chi svolge lavori che richiedono grande sforzo intellettuale, o ancora al doping nello sport, o alle anfetamine utilizzate per perdere peso ecc.), enhancers che hanno effetto permanente sul soggetto direttamente coinvolto (come alcuni interventi di chirurgia estetica) ed enhancers che modificano l’assetto genetico di individui futuri in modo permanente.
La Consulta elabora anche un giudizio etico, in risposta all’orientamento bioetico cattolico, osservando che «non è del tutto chiaro, da un punto di vista filosofico, perché ci sarebbe qualcosa di intrinsecamente immorale e cattivo nel migliorare gli esseri umani prima della loro nascita, quando invece molte terapie e tecniche utilizzate per trattare esseri umani già nati sono accolte con entusiasmo».
Aldilà della posizione che ognuno di noi può avere su questa diatriba, la domanda che dobbiamo porci in prospettiva genealogica è se davvero la “religione del corpo” è il frutto più maturo della società postmoderna, come vuole Bauman, ovvero un novum nella storia, o se scavando più a fondo possiamo trovare tracce della stessa indietro nel tempo. Non si tratta soltanto di soddisfare una curiosità oziosa, giacché l’intera immagine dell’evoluzione della società occidentale è condizionata dalla risposta che possiamo trovare. Se il culto del corpo ha altre origini, significa che la società postmoderna non ha con esso un forte legame causale.

3. Il culto del corpo come esito della biopolitica moderna
Una volta rimossi i detriti dell’era postmoderna, sotto la superficie troviamo le vestigia dell’era moderna. A questo livello, può essere di grande aiuto l’opera di scavo già compiuta da Michel Foucault. Nel 1977 appare in Italia una sua raccolta di interviste, documenti e discorsi intitolata Microfisica del potere. È un volume che si colloca in un punto di passaggio, nel percorso dell’intellettuale francese. Conosciuto per opere come La storia della follia, Le parole e le cose, L’archeologia del sapere, Sorvegliare e punire, Foucault ha appena cominciato a lavorare all’ultima sua grande opera in tre volumi: Storia della sessualità. Nell’intervista che introduce Microfisica del potere, rilasciata ai curatori Alessandro Fontana e Pasquale Pasquino, lo studioso francese fa il punto della situazione sulle ricerche che ha già pubblicato e su quelle che si appresta a pubblicare.
Afferma che, fino a quel momento, si è interessato soprattutto dei rapporti tra politica e scienza, di come certe verità scientifiche, soprattutto in campi come la psichiatria e la medicina, si stabiliscano come effetto del ruolo che esse hanno nell’ambito della politica. Dice che le sue idee non sono state inizialmente prese in considerazione dall’intellighenzia marxista – organica al Partito comunista ed egemone nella cultura francese – giacché quest’ultima, nel dopoguerra, era soprattutto interessata a farsi accettare dall’establishment universitario. Perciò, non metteva in dubbio l’approccio positivistico alle scienze. In relazione alla psichiatria, non lo metteva in dubbio anche perché rischiava di toccare un tasto pericoloso, considerando quanto stava accadendo nei gulag dell’Unione Sovietica staliniana.
Il 1968 cambia profondamente il panorama culturale. Il maggio francese consente la riscoperta e il riconoscimento della pregnanza delle teorie foucaultiane. Foucault, con il suo consueto stile autocritico, ammette che nelle ricerche degli anni Cinquanta e Sessanta è stato fin troppo timido. Per esempio non ha utilizzato in modo esplicito la nozione di “potere”, in particolare di potere in rapporto al corpo, pur essendo tale nozione connaturata a ogni politica della medicina.
Per ovviare a questa mancanza, nella trilogia sulla sessualità, Foucault introdurrà due concetti destinati ad acquisire un ruolo importante nel dibattito filosofico: biopolitica e biopotere. Sono due termini-concetti che abbiamo già discusso in dettaglio in un saggio monografico (Campa 2015 b), e pertanto qui ci limiteremo a un cenno. Lo studioso sostiene che, in quella che i francesi chiamano l’Età classica, ossia nei secoli XVII e XVIII, in concomitanza con la nascita delle monarchie assolute, il potere cambia faccia. Se in precedenza era basato su segni e prelevamenti, da questo momento inizia a esercitarsi attraverso la produzione e la prestazione. Nel Medioevo, i signori pretendevano segni di fedeltà da parte dei sudditi, nella forma di cerimonie e rituali, e prelevavano loro beni attraverso le imposte o i saccheggi. Nell’Età classica, il potere sovrano pretende dai sudditi delle prestazioni e, di conseguenza, inizia a interessarsi al loro corpo. Il corpo deve essere in buona salute, affinché la prestazione possa avere luogo, affinché la produzione sia ottimale. In altre parole, si osserva una “incorporazione” del potere. Il potere entra nel corpo, negli atteggiamenti, nei comportamenti, nella vita quotidiana degli individui. Le discipline scolastiche trasformano i corpi dei bambini in oggetti di manipolazione. L’apparato statale non si occupa più soltanto della sicurezza interna ed esterna, ma agisce su problemi legati alla demografia, alla salute pubblica, all’igiene, all’habitat, alla longevità, alla fecondità.
Perché il potere si interessa dei corpi degli individui? Questa la risposta di Foucault (1978: 19): «un sistema economico che favoriva l’accumulazione del capitale ed un sistema di potere che comandava l’accumulazione degli uomini sono stati a partire dal XVII secolo due fenomeni correlativi ed indissociabili l’uno dall’altro».
Per comprendere pienamente il significato di queste parole, si deve pensare al sistema economico francese del periodo. Il nascente capitalismo, in Francia, prende inizialmente la forma del mercantilismo. Jean-Baptiste Colbert costruisce un sistema di manifatture pubbliche che affiancano quelle private, al fine di aumentare la produzione di beni. L’idea è quella di accumulare moneta aumentando le esportazioni e diminuendo le importazioni. Per aumentare la produzione, Colbert ha bisogno di manodopera. Nasce così l’idea di raccattare per le strade vagabondi, fannulloni, ubriaconi, marginali, sottoporli a un processo di rieducazione e immetterli come operai nel nuovo sistema produttivo. Il biopotere ha dunque un risvolto “positivo”, nel senso tecnico e non morale della parola, giacché non si limita a dire che cosa i cittadini non possono fare, ma dice loro che cosa devono fare di se stessi, del proprio corpo, della propria vita. Al potere positivo, corrispondeva anche un potere negativo: i lavoratori che commettevano errori tecnici venivano messi alla berlina e quando si mostravano pigri o negligenti venivano fustigati.
Considerando lo spirito libertario di Foucault, queste osservazioni hanno fatto pensare che il suo giudizio complessivo sulla biopolitica capitalistica fosse critico tout court. In realtà, la sua valutazione dell’intero fenomeno è ben più complessa. In un’altra intervista, intitolata Potere-corpo, anch’essa inclusa in Microfisica del potere, Foucault affronta apertamente la questione del culto del corpo in questi termini:
Come sempre nei rapporti di potere ci si trova di fronte a fenomeni complessi che non obbediscono alla forma hegeliana della dialettica. La padronanza, la coscienza del proprio corpo non si sono potute raggiungere che per effetto dell’investimento del corpo da parte del potere: la ginnastica, gli esercizi, lo sviluppo muscolare, la nudità, l’esaltazione del bel corpo… tutto questo è nella linea che conduce al desiderio del proprio corpo attraverso un lavoro insistente, ostinato, meticoloso che il potere ha esercitato sul corpo dei bambini, dei soldati, sul corpo in buona salute. Ma dal momento in cui il potere ha prodotto questo effetto, nella linea stessa delle sue conquiste, emerge inevitabilmente la rivendicazione del proprio corpo contro il potere, la salute contro l’economia, il piacere contro le norme morali della sessualità, del matrimonio, del pudore. E ad un tratto, ciò stesso per cui il potere era forte diventa ciò da cui è attaccato… Il potere si è addentrato nel corpo, esso si trova esposto nel corpo stesso… (Foucault 1978: 138).
C’è dunque una possibilità di riscatto sociale che scaturisce proprio da quella cura del corpo che, invece, Bauman interpreta come ripiegamento dell’individuo su se stesso. Sia chiaro, però, – e Foucault lo dice in questo passo – che non si deve pensare a una contrapposizione dialettica necessaria tra classe al potere e classe rivoluzionaria, per di più con un esito già scritto. La lotta potrebbe essere senza fine. La lotta potrebbe riguardare più di due soggetti. I rapporti di potere sono distribuiti in tutta la società e vanno ben oltre il quadro dello Stato o di una eventuale struttura politico-militare antagonista pronta ad occuparlo o a prenderne il posto. Il limite della filosofia politica tradizionale è che si riduce spesso a una dottrina dello Stato e si concentra fondamentalmente sulla questione della sovranità. Foucault supera questa prospettiva. Per lo studioso francese, «lo Stato è sovrastrutturale in rapporto a tutta una serie di reti di potere che passano attraverso i corpi, la sessualità, la famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche, ecc.» e il metapotere con funzioni di interdizione «non può reggersi che nella misura in cui si radica in tutta una serie di rapporti di potere che sono molteplici, indefiniti, e che sono la base necessaria di queste grandi forme di potere negativo» (Foucault 1978: 16). Ecco perché, in relazione alla teoria foucaltiana, si parla di “microfisica” del potere. Proprio l’approccio microfisico marca la distanza dell’intellettuale francese dal “paramarxista” Herbert Marcuse (così lui lo definisce), il quale tende invece ad interpretare l’azione dello Stato “borghese” unicamente in termini di repressione.
Scrivendo nel dopoguerra, in piena guerra fredda, Foucault tende ad analizzare le dinamiche biopolitiche nel mondo occidentale ponendole a confronto con quelle del blocco orientale. Il regime capitalista e il regime comunista non esauriscono, però, lo spettro dei regimi politici della modernità. Se scaviamo appena più a fondo, troviamo infatti il regime che più di ogni altro ha fatto del culto del corpo il pilastro della propria biopolitica. Ci riferiamo al regime fascista. Non che Foucault abbia ignorato questo fenomeno. Egli, come altri studiosi di biopolitica dopo di lui (in particolare Giorgio Agamben e Roberto Esposito), ha affrontato in dettaglio la questione dell’olocausto nel regime nazionalsocialista tedesco. Qui, però, vogliamo affrontare il problema del corpo in una prospettiva diversa. Ponendo l’accento sul ruolo dello sport nei regimi totalitari, intendiamo enfatizzare maggiormente il contrasto tra l’ordine emerso, endogeno, spontaneo di cui parla Bauman e l’ordine costruito, esogeno, artificiale, di cui parla la biopolitica. Per utilizzare la terminologia di Friedrich Hayek (1979), intendiamo fare risaltare tutta la differenza tra Kosmos e Taxis. Inoltre, come vedremo, attraversando il fascismo italiano, ci apriremo un varco per andare ancora più indietro nel tempo, alle radici della “religione del corpo”.

4. Il culto del corpo nel regime fascista
L’educazione fisica fu introdotta come materia obbligatoria nelle scuole secondarie italiane dalla Legge Casati del 1859, dunque da un governo liberale – a conferma della tesi foucaltiana che collega la cura del corpo alla nascita del capitalismo. Tuttavia, in molte scuole non vi erano le condizioni necessarie per le attività ginniche. Nel 1923, metà delle scuole superiori era ancora priva di palestra (Togni 2011: 14).
Il processo subisce un’improvvisa accelerazione con l’avvento del fascismo. La ginnastica, che era stata ribattezzata “educazione fisica” già nella Riforma Daneo del 1909, con la riforma della scuola concepita e realizzata da Giovanni Gentile viene esclusa dalla competenza delle scuole e affidata a una istituzione apposita con sede a Milano: l’Ente Nazionale per l’Educazione Fisica (ENEF). Nel 1927, l’ENEF viene sciolta e sostituita nella funzione dall’Opera Nazionale Balilla (ONB).
Che sia stato proprio Gentile a imprimere questa accelerazione, di primo acchito, potrebbe apparire paradossale. Il filosofo del regime si muoveva nel solco dell’idealismo hegeliano, partiva cioè da presupposti ontologici che portavano a esaltare l’uomo nella sua dimensione spirituale, autocosciente, mentale, piuttosto che nella sua dimensione materiale, corporale, atletica. Il paradosso si scioglie se si tiene presente che l’idealismo non è necessariamente ascetico. Sebbene possa apparire contrario al senso comune, come lo stesso Gentile ammette, per la filosofia idealistica anche il corpo è spirito. Il fatto che il corpo sia, almeno parzialmente, modificabile dalla volontà dimostra che appartiene anch’esso al regno della libertà. Sicché, non dobbiamo stupirci se, già nel 1912, Gentile dedica all’educazione fisica il sesto capitolo del suo Sommario di pedagogia come scienza filosofica. Ancora più corposo è il capitolo dedicato all’educazione fisica nel libro La riforma dell’educazione, del 1920.
Non si può mancare di notare, tuttavia, che, rispetto a quanto vedremo di lì a poco dispiegato nella vita reale del fascismo, l’approccio del filosofo alla materia è alquanto timido. Più che le basi filosofiche di un “culto del corpo”, nei suoi trattati troviamo un tentativo di giustificare filosoficamente l’educazione fisica. Considerate le premesse ontologiche del suo pensiero, non c’è e non ci può essere in esso un’esaltazione del corpo come macchina fisico-atletica, da potenziare utilizzando le conoscenze positive acquisite nel campo della biologia e della medicina. A Gentile non interessa il corpo in quanto tale. Tende a riconoscere gli influssi benefici di uno spirito ben educato sul corpo, e in misura assai minore gli influssi del corpo ben educato sullo spirito. Non a caso, nei capitoli dedicati all’educazione fisica, la parola “spirito” ricorre molto più spesso della parola “corpo”. I distinguo, i “ma” e i “se” dominano il discorso.
Lui stesso sa che i suoi principi dovrebbero, in teoria, portarlo in direzione opposta, tanto che si fa premura di chiarire che non è sua intenzione sminuire la ginnastica e l’attività fisica. Nell’incipit del capitolo “Educazione fisica e carattere” de La riforma dell’educazione, chiarisce che «noi non ci proponiamo di combattere» la dottrina dell’educazione fisica, ma piuttosto di riconfermarla «col nostro concetto dell’unità dell’educazione» (Gentile 2015: 196). E così conclude il capitolo: «Dunque? Educazione fisica, sì, ma come educazione spirituale e formazione del carattere. La quale non si promuove soltanto con la ginnastica, anzi non si promuoverà di certo con questa, finché la ginnastica sarà intesa come altra cosa dal resto dell’educazione, con un fine a sé, e un contenuto eterogeneo rispetto all’educazione spirituale propriamente detta. Anche il maestro di ginnastica deve ricordarsi che egli non tratta corpi, quei corpi che allinea e mette in moto, ma tratta anime, e concorre con tutti gli altri maestri a favorire la costituzione della struttura morale degli uomini» (Gentile 2015: 218-219).
Il fascismo partirà dal valore pedagogico della ginnastica, in linea con i precetti gentiliani, ma soltanto per spingersi molto più lontano. Marcello Veneziani (2012), in un articolo dedicato al culto del corpo e all’influsso che – sotto questo profilo – il fascismo italiano ha esercitato sugli Stati Uniti d’America, ci offre un quadro vivo di ciò che rappresentò lo sport per il regime.
Lo sport dava al fascismo la possibilità di celebrare la volontà di potenza e incarnare il mito del superuomo, esaltare il vitalismo e il culto della giovinezza, concepire la vita come la continuazione della guerra con altri mezzi e mobilitare il popolo, le donne, i giovani nella partecipazione attiva a eventi e parate che creavano coesione sociale e rito collettivo. Con lo sport il fascismo riprendeva il culto classico, greco-romano, dell’agonismo e il mito dell’atleta, come un eroe in tempo di pace, caro agli dei e ai popoli; l’elogio del corpo muscoloso e armonioso, il mito dell’educazione fisica e la nascita degli Istituti, poi Isef, il valore pedagogico della ginnastica.
L’articolo mette in risalto il fatto che il fascismo non sviluppa il culto del corpo in un vacuum culturale, ma partecipa al mito d’epoca. Lo sport di massa e la sfida dei record tra individui e tra nazioni, inclusi i record nei campi dell’aeronautica e delle esplorazioni estreme, sono fenomeni condivisi da tutto il mondo occidentale. La concezione italiana dello sport come vetrina della potenza nazionale si integra perfettamente con la concezione anglosassone dello sport come fattore di coesione sociale e di salute pubblica, nonché catalizzatore di energie e simboli. Così prosegue Veneziani:
Nello sport si celebravano i miti della modernità: il culto della velocità e il corpo liberato, lo spettacolo della forza e la forza dello spettacolo, il primato dell’azione e il pragmatismo, l’emancipazione femminile, il prolungamento della giovinezza e l’esuberanza delle energie vitali. In questo, il fascismo era figlio di quel tempo che aveva ripristinato le Olimpiadi e aveva reso lo sport un formidabile strumento di ricreazione e divertimento. Lo sport inseriva appieno il fascismo nella corrente della modernità, pur nel culto classico dell’atleta. C’è un sottinteso paganesimo nel regime che esalta il corpo, il vigore e la bellezza, la salute e l’ardimento e considera gli eroi dello sport come divi o semidei.
Veneziani coglie alcuni aspetti cruciali della questione. Gli eroi del Novecento, prima ancora che filosofi e intellettuali che pensano, sono uomini d’azione, pragmatici ed energici. Sono politici, soldati, atleti che agiscono. L’azione, la prassi, la vitalità sembrano ormai precedere per importanza il pensiero, la riflessione, la contemplazione. In un’epoca in cui domina il rumore, in cui mille teorie politiche e filosofiche si scontrano nell’arena delle idee, in cui si è persa la fiducia in un Tribunale della Ragione che possa decidere chi è nel giusto e chi nell’errore, è la Storia, il fatto, l’atto a decidere chi ha ragione. Di qui l’importanza della guerra, dello sport, delle esplorazioni. È in queste arene che si trova un giudice insindacabile che stabilisce chi ha ragione, senza ombra di dubbio. Ma in queste arene, oltre al carattere, alla forza morale e intellettuale, gioca un ruolo essenziale anche la forza fisica, la resilienza, la corporeità.
Inoltre, sul piano squisitamente genealogico, Veneziani pone in evidenza che quanto si osserva nella Modernità rappresenta un ritorno, seppure aggiornato, ai valori della civiltà greco-romana – una “rivincita del paganesimo”, come noi stessi abbiamo sostenuto in un libro che porta questo titolo (Campa 2013 b). E si badi che non si tratta soltanto dell’operazione nostalgica di un regime che si crede erede dell’Impero Romano. Si tratta di un ritorno che riguarda tutte le diramazioni politico-culturali della Modernità. Un ritorno che ha origine nel Rinascimento e trova un momento espressivo importante nell’Illuminismo, quando i philosophes forgiano un nuovo paganesimo «diretto contro l’eredità cristiana e dipendente dal paganesimo dell’antichità classica», ma che era al contempo «un paganesimo moderno, emancipato dal pensiero classico così come dal dogma cristiano» (Gay 1977: xi). Si tratta, dunque, di comprendere che il movimento è di carattere mondiale e accomuna, nel recupero dello spirito pagano (l’eredità del passato) e nello slancio verso l’avvenire (lo sguardo al futuro), tutte le varianti politiche della Modernità: il capitalismo americano, il fascismo italiano, il comunismo sovietico. Laddove si celebrava il mito dell’uomo nuovo fioriva il mito dello sport. La passione che contagia «Roma e Parigi, Mosca e New York» è figlia anche del futurismo «che fu il pendant artistico-letterario del mito sportivo e dinamico. Anche il consenso al comunismo di Stalin e dei paesi dell’est, di Mao e poi di Castro non è immaginabile senza la mobilitazione agonistica. Le società di ginnastica, i Wanderwogel e i club sportivi furono formidabili incubatrici del nazionalismo in Germania» (Veneziani 2012).
Se guardiamo alla situazione specifica dell’Italia, dobbiamo riconoscere che l’idealismo gentiliano ebbe un ruolo limitato nella generazione del culto del corpo. Altre forze culturali erano in azione. Come sottolinea Veneziani, «nel culto dello sport si ritrovava l’album ideologico e letterario che aveva portato al fascismo: l’ardito dannunziano e malapartiano, lo spirito nietzschiano e lo stil novo marinettiano, il mito imperiale della romanità e dei circenses». Basta mettere a confronto l’idea di educazione fisica di Gentile con quella di Marinetti e dei futuristi, per comprendere quale fosse all’epoca la principale leva culturale del culto del corpo. Nel Manifesto del partito futurista italiano del 1918, oltre a proporre l’abolizione dell’insegnamento classico, in netta contrapposizione a Gentile, i futuristi propongono: «Ginnastica obbligatoria con sanzioni penali. Educazione all’aria aperta, sportiva e militare, scuole di coraggio e d’Italianità». Non solo si utilizza l’espressione “educazione sportiva”, quando la parola “sport” non appare mai nei succitati trattati pedagogici di Gentile, ma si propone addirittura di rendere reato la mancanza di cura del proprio corpo.
Il fascismo ci offre notevoli spunti per scavare ancora più a fondo nella storia delle idee. Innanzitutto non dobbiamo fare cadere il riferimento al pensiero di Friedrich Nietzsche. Questi rappresenta, forse più di ogni altro pensatore, un punto di rottura nella storia del pensiero europeo e, nel contempo, un solido ponte tra la Modernità e lo spirito pagano antico.
Una letteratura copiosissima, alla quale hanno contribuito pensatori come Gilles Deleuze e Michel Foucault, Gianni Vattimo e Mario Perniola, ci ha insegnato a non ridurre Nietzsche a “filosofo del nazismo”, a non considerarlo anacronisticamente responsabile per ciò che accadrà dopo la sua morte. Tuttavia, il fatto che l’intellighenzia di sinistra, negli ultimi decenni del Novecento, ha reinterpretato e adottato il filosofo di Sils-Maria non cancella la circostanza che – interpretandolo correttamente o scorrettamente (nella questione qui non entriamo) – nella prima metà del Novecento gli ideologi del fascismo e del nazionalsocialismo hanno attinto a piene mani dalle idee di Nietzsche. Chi ha il senso delle connessioni storiche non può sorvolare su questo fatto, documentato e documentabile.
Pertanto, per comprendere appieno l’emersione del culto del corpo nel ventennio fascista, non dobbiamo scordare che: il principale artefice del fascismo è Benito Mussolini; che questi era dotato di pensiero politico e filosofico proprio; che prima di diventare fascista è stato socialista; che in modo indipendente da Gentile aveva già riconosciuto l’importanza dell’educazione fisica, tanto che nel 1921 aveva costituito un gruppo parlamentare per la diffusione della stessa; e soprattutto che Nietzsche è stato l’unico filosofo che ha studiato in modo sistematico.
È ancora socialista, Mussolini, quando offre una critica spietata dell’ascetismo e della mortificazione del corpo prodotti dalla tradizione cristiana. Nota che «è nell’intimo spirito della religione nascosta la tortura. Se il principio del bene è l’anima se il principio del male è il corpo, occorre per purificar quella, macerar questo». E aggiunge che «il religioso che fugge gli uomini, è un anormale – essendo la socievolezza istinto caratteristico della specie umana. Questa anormalità si riafferma quando egli per rendersi degno del premio divino, subisce o fa subire parziali diminuzioni alla parte fisica del suo essere. E così è di tutti i deisti. Dai Cinesi che si tagliano brandelli di carne per propiziarsi Confucio, ai Mussulmani che per Allah gittano stoicamente la vita, ai fedeli in Cristo che ammettono e praticano ancora la penitenza, il digiuno, le pene corporali, la reclusione volontaria colle annesse “Figlie del Buon Pastore”» (Mussolini 1951: 38).
È ancora un militante del partito socialista anche quando scrive il saggio Filosofia della forza, ove si confronta apertamente con il pensiero di Nietzsche. Come recita il sottotitolo, lo scritto è costituito da Postille alla conferenza dell’On. Treves, il quale – a detta di Mussolini (1951: 174) – ha offerto «una chiara, sintetica, brillante esposizione delle teorie dì Federico Nietzsche». Un complimento che ancora non fa presagire il duro scontro verbale e fisico che caratterizzerà pochi anni più tardi i rapporti tra i due compagni e che culminerà in un duello alla sciabola. Un violento duello che durerà ben venticinque minuti e lascerà ferite sanguinanti in entrambi i corpi.
Nel 1908, Claudio Treves, socialista di origini ebraiche (enfatizziamo questa circostanza biografica per mostrare come certi steccati ideologici siano sorti solo in seguito), espone in termini positivi le teorie contenute nel Wille zur Macht, esaltandone il carattere vitalistico. Mussolini aggiunge al discorso di Treves alcune considerazioni personali, pescando da altre opere di Nietzsche: Così parlò Zarathustra, Genealogia della morale, Al di là del bene e del male.
Mussolini (1951: 174) comincia col dire che «Nietzsche è pur sempre lo spirito più geniale dell’ultimo quarto del secolo scorso e profondissima è stata la influenza delle sue teoriche». Il leader socialista fa propria la visione nietzscheana della storia.
Col cristianesimo è la morale della rinuncia e della rassegnazione che trionfa. Al diritto del più forte – base granitica della civiltà romana – succede l’amore del prossimo e la pietà. Dal giorno in cui Massenzio vide le sue legioni sgominate sulle rive del Tevere e Costantino trionfante; dal giorno in cui sui labari di guerra fiammeggiò la croce – i vecchi iddii abbandonarono i loro templi, un soffio di morte spense la giocondità dell’olimpo pagano, e il Nazzareno dalle rosse chiome ascese il Campidoglio. Quando Giuliano l’apostata volle tentare un ritorno all’ellenismo, era ormai troppo tardi. E per 20 secoli la follia cristiana ha imperversato. Non più il riso, la gaiezza del vivere, la serenità del morire, la lotta, la conquista; ma lunghe teorie di peccatori dai nervi sfiniti, dalle anime angosciate, dai corpi lacerati attraverso il cilicio, la penitenza, la flagellazione – uomini che alla vita non chiedevano se non la preparazione per il pauroso e misterioso al di là (Mussolini 1951: 180).
Si tratta di una narrazione che, prima ancora di appartenere a Mussolini e a Nietzsche, è il prodotto della pubblicistica dell’Illuminismo (Campa 2014). Una narrazione che pone le basi di una profezia antropologica. Ora che il campo è stato sgombrato dalla follia cristiana, un uomo nuovo deve prendere il posto dell’uomo angosciato e timoroso che ci ha consegnato il Medioevo. E qui spunta naturalmente il concetto di “superuomo”, che per l’autore de La filosofia della forza è «la grande creazione Nietzschiana», ovvero «una superba nozione» per la quale dobbiamo rendere omaggio al solitario professore di lingue antiche dell’università di Basilea. Molto è stato scritto sul superuomo, o oltreuomo che dir si voglia, e diverse sono le conclusioni a cui sono giunti gli interpreti. Lecito chiedersi, dunque, come se lo immaginava il giovane Mussolini.
Ergendosi a profeta, il politico socialista annuncia enfaticamente che «verrà una nuova specie di “liberi spiriti” fortificati nella guerra, nella solitudine, nel grande pericolo, spiriti che conosceranno il vento, i ghiacci, le nevi delle alte montagne e sapranno misurare con occhio sereno tutta la profondità degli abissi – spiriti dotati di un genere di sublime perversità – spiriti che ci libereranno dall’amore del prossimo, dalla volontà del nulla ridonando alla terra il suo scopo e agli uomini le loro speranze – spiriti nuovi, liberi, molto liberi che trionferanno su Dio e sul Nulla!» (Mussolini 1951: 181).
Fondamentale, nell’economia del discorso, è il riferimento al “nulla”. Il superuomo come antitesi del nulla. Si tratta di un’interpretazione che ha un suo fondamento, perché Nietzsche non è il filosofo del nichilismo, come una delle tradizioni interpretative contemporanee vorrebbe farci credere. Nietzsche è il filosofo che combatte il nichilismo. Il marchio del pensiero di Nietzsche è notoriamente l’anticristianesimo. In tutta la sua opera Nietzsche identifica il cristianesimo come il fenomeno culturale che ha annichilito i valori autentici – le virtù. Virtù che, a suo dire, troviamo nell’uomo greco-romano e nell’italiano del Rinascimento. Ne L’Anticristo è piuttosto esplicito al riguardo. Prima dice che «il cristianesimo è stato fino a questo momento la più grande sciagura dell’umanità» (Nietzsche 2013: 103). Poi, chiarisce che «Nichilista e cristiano: si corrispondono tra loro, e non soltanto si corrispondono…» (Ivi: 119). Se Dio è il nulla, l’Aldilà è il nulla, l’anima immortale è il nulla, chi costruisce la propria visione del mondo su questi tre concetti è un cultore del nulla – un nichilista, per l’appunto. La controffensiva degli anti-nichilisti non può, allora, che partire dalle antitesi di questi tre dogmi: la morte di Dio, la fedeltà alla Terra, il culto del corpo. Dobbiamo allora spingerci ancora più indietro, o più a fondo, per comprendere questo passaggio cruciale.

5. Il culto del corpo nel pensiero di Friedrich Nietzsche
Nietzsche è il filosofo contemporaneo che, forse più di ogni altro, ha segnato una rottura nella tradizione metafisica europea, ridando dignità al corpo in quanto tale. Il suo lavoro è stato certamente preparato da molti altri studiosi, e tra questi figurano alcuni pensatori del Rinascimento, gli empiristi inglesi, i materialisti francesi e finanche alcuni filosofi tedeschi, per esempio Arthur Schopenhauer, ma è soltanto con Nietzsche che il discorso sul corpo acquista una carica poetica e una determinazione politica davvero notevole.
Se L’Anticristo è l’opera in cui il filosofo di Sils-Maria propone esplicitamente l’equazione tra cristiano e nichilista, è pure vero che nell’incipit della stessa opera si legge che il libro «è riservato a pochissimi» e, in particolare, «a coloro che comprendono il mio Zarathustra» (2013: 37). In effetti, la stessa equazione, seppure implicitamente, emerge già nel poema filosofico dedicato al profeta persiano. Le parole che risuonano in Also Sprach Zarathustra mostrano tutta la distanza dell’autore dalla prospettiva di Cartesio, che ha posto l’Io – la ragione – al centro del discorso filosofico e relegato il Sé – il corpo – nella periferia dello stesso. Una tradizione filosofica, quella cartesiana, che, secondo Nietzsche, non è altro che una versione secolare della teologia cristiana.
Zarathustra, quando inizia a insegnare al popolo, mette a confronto il passato (“una volta”) con il presente (“in verità l’uomo è…”) per indicare il futuro (“ecco, io vi insegno il superuomo…”).
Una volta l’anima guardava con disprezzo il corpo: e quel disprezzo era una volta il più alto ideale – lo voleva magro, odioso, affamato. Pensava, in tal modo, di sfuggire a lui e alla terra. Oh, quest’anima era anch’essa magra, odiosa, affamata: e la crudeltà sua gioia suprema. Ma voi pure, fratelli miei, ditemi: che cosa vi rivela il vostro corpo intorno all’anima vostra? Essa non è forse miseria e sozzura, e compassionevole contentezza di sé medesima? In verità l’uomo è fangosa corrente. Bisogna addirittura essere un mare per poter ricevere in sé un torbido fiume senza divenire impuro. Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è questo mare, e in esso può inabissarsi il vostro grande disprezzo. (Nietzsche 2011: 36).
Nella narrazione di Nietzsche, i nemici del corpo sono i preti cristiani e i filosofi che ancora si muovono nel solco della metafisica. Su questo chiodo batterà con il suo martello filosofico in pressoché tutte le opere successive. In Zarathustra lo fa in modo meno esplicito. La parola “cristiani” non compare nell’opera, ma le allusioni sono fin troppo chiare, anche alla luce di ciò che scriverà successivamente: «Furono malati e moribondi coloro che spregiarono corpo e terra, e inventarono il cielo e redentrici gocce di sangue: ed è ancora dal corpo e dalla terra ch’essi tolsero questi veleni dolci e tristi!» (Nietzsche 2011: 63).
Se c’è una differenza essenziale, tra lo Zarathustra e l’Anticristo, essa è nel tono della narrazione. Zarathustra è mite, paziente, lascia una porta aperta alla “redenzione”. Soprattutto, ha il cuore colmo di speranza. I malati, i cristiani, i metafisici, possono ancora redimersi, «risanare, superare sé stessi e crearsi un corpo più perfetto!». Gli interlocutori non sono “nemici”, ma “fratelli” esortati ad ascoltare «la voce del corpo guarito», giacché «questa una voce più leale e più pura. Con maggior onestà e purezza parla il corpo sano, saldo, perfetto: e parla del senso della terra. – Così parlò Zarathustra» (Nietzsche 2011: 64-65).
Ben diverso il tono de L’Anticristo, ove l’autore chiama per nome i cristiani, ove proclama la necessità di una legge contro il cristianesimo, ove afferma che la Bibbia va sfogliata indossando i guanti, ma non per rispetto, per ragioni igieniche. I cristiani non possono più essere salvati. Non sono più fratelli sulla cattiva strada, sono nemici. L’accusa è sempre la stessa: nella religione del Nazareno, «il corpo viene disprezzato, l’igiene respinta come sensualità; la Chiesa si oppone perfino alla pulizia (– la prima misura cristiana, dopo la cacciata dei Mori, fu la chiusura dei bagni pubblici, e la sola Cordova ne possedeva 270)» (Nietzsche 2013: 59).
Nietzsche, non diversamente dagli illuministi, individua come “cristiano” il senso di crudeltà verso se stessi e verso gli altri, l’astio per coloro che la pensano differentemente, l’atteggiamento persecutorio, il gusto del tetro, l’ostilità mortale verso tutto ciò che è nobile e forte, l’odio per le virtù autentiche (lo spirito, l’orgoglio, il coraggio, la libertà, il libertinaggio spirituale), il disprezzo per i sensi, per la gioia dei sensi, la gioia in generale. Ma, oltre a questo, l’autore de L’Anticristo osserva una chiara determinazione fisica, corporea, e la pone in correlazione a questi stati della mente. Nota che gli stati spirituali più desiderati dai cristiani e da essi designati con i nomi più eccelsi sono sintomi «epilettoidi» e che «la dieta è selezionata in modo tale da favorire fenomeni morbosi e da sovreccitare i nervi» (Ibidem).
Nello Zarathustra vi è un intero capitolo dedicato agli “sprezzatori del corpo”. Anche qui compare l’idea che, in ultima istanza, è il corpo a determinare lo spirito, il sé a determinare l’io, e non viceversa. Questo tema, anticipato da Schopenhauer, sarà successivamente sviluppato da Sigmund Freud e, con altri metodi, dalla neurobiologia. Non si può, dunque, sottostimare la portata scientifica di questo ribaltamento di prospettiva. Il profeta persiano che Nietzsche eleva a propria voce è esplicito al riguardo: «Dietro i tuoi pensieri ed i tuoi sentimenti, o fratello, vi è un maestro più potente, un saggio sconosciuto – che si chiama sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo» (Nietzsche 2011: 67).
Il crimine commesso dagli sprezzatori del corpo è, dunque, un attentato contro la stessa realtà delle cose, contro la vita, contro l’esistenza terrestre. Ma nel poema filosofico, Nietzsche (2011: 68) si limita a proclamare l’inutilità degli sprezzatori del corpo, si limita a dire che è opportuno scegliere un’altra strada, perché la via indicata dai cristiani è un vicolo cieco, mentre la via autentica è quella che conduce al superuomo: «Non seguo la vostra via, o sprezzatori del corpo! Voi non siete per me i ponti verso il superuomo! – Così parlò Zarathustra».
Ben diverso il tono de L’Anticristo. Qui si reclama il diritto al disprezzo di chi disprezza, il diritto di combattere «con sufficiente violenza» chi afferma che il cristianesimo fu uno sviluppo della civiltà pagana che trasse necessità dalla corruzione morale del mondo antico. Questa è null’altro che una «erudita idiozia». Per Nietzsche il declino del mondo antico non è affatto l’espressione del lento «declino di una razza», è invece il risultato dell’aggregazione e della ribellione dei reietti, dei malriusciti, degli elementi di scarto dell’umanità. Così si esprime il filosofo tedesco:
A noi altri, a noi che abbiamo il coraggio della salute e anche del disprezzo, a noi è lecito disprezzare una religione che ha insegnato a fraintendere il corpo, che non vuole sbarazzarsi delle superstizioni dell’anima, che fa dell’insufficiente nutrizione un “merito”, che nella salute combatte una specie di nemico, di diavolo, di tentazione, che si è data ad intendere che si possa portare in giro un’“anima perfetta” in un cadavere di corpo, ed ebbe bisogno di predisporsi, a tal fine, una nuova nozione della “perfezione”, un modo di essere esangue, malaticcio, fanatico-idiota, la cosiddetta “santità” – santità che null’altro è che una serie di sintomi di un corpo impoverito, snervato, inguaribilmente devastato! (Nietzsche 2013: 102).
Torna, dunque, insistentemente, l’idea che vi sia un legame ferreo tra il carattere morale e la costituzione fisica. Chi è debole, malato e brutto disprezza la forza, la salute, la bellezza. Disprezza ciò che non ha. È un’invidia subdola, biliosa, maligna a determinare le sue convinzioni e i suoi comportamenti. L’idea di unità tra bellezza e bontà (intesa come virtù) è un’idea greca. È l’ideale della καλοκαγαθία (kalokagathia). Per i Greci, in un corpo debole alberga di necessità un’anima vile, in un corpo forte un’anima virtuosa. Questo perché un debole sarà costretto dalla sua costituzione fisica a essere subdolo, a mentire, a fuggire, al fine di sopravvivere. Il forte sarà invece pronto ad affrontare a viso aperto i propri avversari, a esprimere sinceramente le proprie convinzioni, a combattere coraggiosamente. Nella misura in cui si riconosce che l’integrità, la sincerità e il coraggio sono virtù, mentre la doppiezza, la menzogna e la codardia sono difetti morali, assume significato l’affermazione che la forza e la bellezza del corpo sono le cause profonde della moralità.
Nietzsche fa esplicitamente propria questa convinzione, quando afferma che all’«anima potente […] appartiene il corpo elevato, bello, vittorioso, ristoratore, intorno a cui diviene specchio ogni cosa: il corpo flessibile e seducente, il danzatore il cui simbolo ed espressione è l’anima gioiosa di sé stessa. La gioia egoista di tali corpi e di tali anime si chiama da sé medesima: “virtù”» (Nietzsche 2011: 296-297).
Il filosofo di Sils-Maria fa propria l’idea di kalokagathia, come fa proprie le idee politiche che ne conseguono. Se il corpo riveste una tale importanza, se lo stesso livello di moralità pubblica dipende dalla conformazione dei corpi dei cittadini, se la stessa esistenza della comunità dipende dai corpi, giacché – non dimentichiamolo – stiamo parlando di società guerriere in un contesto di bellum omnium contra omnes, ove l’integrità, la forza e il coraggio dei cittadini sono fattori decisivi di sopravvivenza, non può stupire che filosofi come Platone e Aristotele, nei loro trattati politici, dedichino così ampio spazio alla biopolitica. L’attenzione al matrimonio e alla procreazione, all’esercizio e alla cura dei corpi, di genitori e figli, è la pietra angolare della filosofia politica greca.
Ecco perché Nietzsche chiede a Zarathustra di parlare anche “del matrimonio e dei figli”. Così facendo, non fa che riportare al centro del discorso filosofico contemporaneo un tema greco: «Sopra te stesso devi costruire. Ma prima di tutto devi aver finito di edificare te stesso, ed essere retto di corpo e di anima. Non devi soltanto propagare la tua stirpe più lungi, ma più in alto! A ciò ti giovi il giardino del matrimonio! Tu devi creare un corpo più sublime, un primo impulso, una ruota che giri sovra sé stessa – un creatore devi creare» (Nietzsche 2011: 121).
L’ontologia naturalistica, materialistica, atomistica – anch’essa di origine greca –, che Nietzsche e gli illuministi prima di lui recuperano, diventa così la base filosofica di un autentico culto del corpo. Corpo che può essere apprezzato per la sua bellezza apollinea o coltivato per i fremiti dionisiaci da cui è percorso quando coinvolto nei ditirambi, nella danza e nella musica.
L’ontologia materialistica che, riemergendo nella Modernità, ridà dignità alla dimensione corporea dell’esistenza è stata spesso avversata da dualisti e idealisti per le conseguenze escatologiche e soteriologiche che convoglia. Le obiezioni sono di natura emozionale e razionale. Domina il timore della cessazione definitiva dell’esistenza e l’apparente insensatezza di un’identificazione totale con un sé che si trasforma incessantemente piuttosto che con un io che sembra stabile, con il divenire piuttosto che con l’essere, con il corpo piuttosto che con l’anima – un corpo che, per quanto bello, forte e armonioso, è esposto alle ingiurie del tempo e si deteriora inesorabilmente. Com’è noto, Nietzsche supera queste obiezioni emotive e razionali attraverso il recupero di un’altra idea greca: l’eterno ritorno dell’identico. Se tutto ciò che esiste, se i corpi visibili e invisibili, non sono altro che combinazioni di atomi, di indivisibili, in un eterno divenire, e se l’essere che è la totalità dell’universo non ha né inizio né fine, in un tempo infinito la probabilità che tutti i corpi e tutti gli istanti della vita tornino esattamente com’erano, e così tornino infinite volte, è pari a uno, ossia certezza. Sicché, la morte è solo fittizia. Noi, in quanto sé, in quanto corpi, in quanto volontà che sono iscritte nella conformazione di questi corpi, siamo eterni nell’essere come nel divenire.
Questa convinzione consente a Nietzsche di conseguire l’atarassia, l’imperturbabilità, la perfetta tranquillità d’animo di fronte all’idea che più di ogni altra terrorizza le moltitudini: l’idea della morte. «Le anime sono mortali al pari del corpo. Ma l’intreccio delle cause in cui sono avvolto tornerà un giorno – e di nuovo mi creerà! Faccio parte io stesso delle cause d’un eterno ritorno» (Nietzsche 2011: 340-341).

6. Il culto del corpo nella filosofia greca
Nietzsche ci ha riportato così ai Greci. Che le opere di Nietzsche trabocchino di ammirazione per gli Elleni è un fatto noto. La peculiarità dell’approccio filologico nietzscheano è che, al contrario dei teologi cristiani, i quali hanno cercato nei Greci innanzitutto i “preparatori” dell’avvento della “vera religione”, punta l’attenzione su quegli aspetti che marcano tutta la distanza del paganesimo dal cristianesimo. Ci faremo, perciò, guidare da Nietzsche, nella nostra ricerca dei segni che testimoniano la presenza di un culto del corpo nella culla della civiltà europea (semmai ce ne fosse bisogno!).
Molto è stato scritto sull’importanza dei corpi in Grecia – un culto dei corpi che si palesa nelle sculture come nelle opere pittoriche, nella poesia come negli scritti storici, nella ginnastica educativa come nei giochi olimpici, nelle danze come nella guerra, nell’abbigliamento come nell’erotismo. Tutti hanno potuto ammirare la magnificenza dei corpi scolpiti dagli artisti greci, sebbene nella più parte dei casi attraverso le copie romane: l’Efebo di Crizio, l’Apollo Parnopios di Fidia, il Doriforo di Policleto, l’Afrodite di Alessandro di Antiochia, l’Afrodite Cnidia di Prassitele, o la Venere Genitrice di Callimaco, solo per fare qualche esempio. La stessa religione greca, attraverso la teurgia, riconosce alla forma corporea una funzione spirituale. Stupisce piuttosto che, in alcuni studi sociologici, non ci sia la piena consapevolezza di quanto i costumi del mondo contemporaneo siano in debito con quelli del mondo pagano, ovvero del fatto che «parlando dei greci, parliamo senza volerlo di ieri e oggi insieme» (Nietzsche 1993 a: 760).
In Nascita della tragedia, Nietzsche divide la storia della Grecia antica in due periodi: prima e dopo Socrate. Con ciò riconosce che il cambiamento di paradigma, dalla centralità del corpo alla centralità dell’anima, inizia già prima dell’avvento del cristianesimo. Inizia con la nascita della filosofia. Cambia solo la valutazione del fenomeno, rispetto a quella offerta dai teologi cristiani. Per Nietzsche, Socrate e Platone danno avvio alla “decadenza”, valutando la dimensione spirituale dell’esistenza, a scapito di quella materiale. Essi introducono nell’immagine del mondo una realtà parallela, il mondo delle idee, supposto migliore – addirittura perfetto! – di fronte al quale tutta la ricchezza del mondo terrestre sbiadisce. In breve, essi introducono quel concetto di trascendenza sul quale il cristianesimo costruirà la propria teologia.
Sulla questione è però necessario procedere con cautela. Nelle opere successive, Nietzsche ricalibra infatti la propria posizione. Non mette Socrate e Platone sullo stesso piano di Gesù o dei teologi cristiani. Tiene presente che essi erano e restavano comunque greci. Anche perché, se non si tiene fermo questo fatto, diventa impossibile comprendere la grande attenzione ai corpi, alla ginnastica, alla nudità, alla procreazione selettiva, all’eutanasia dei malati terminali, all’aborto dei mal concepiti, che troviamo nella Repubblica di Platone e in altri suoi scritti politici. È vero che il filosofo tedesco sostiene di onorare Tucidide più di Platone, giacché, rispetto a quest’ultimo, lo storico ateniese possiede «una maggiore giustizia pratica; non è un diffamatore e un detrattore degli uomini che non gli piacciono o gli hanno fatto del male» (Nietzsche 1993 b: 974). Tuttavia, Nietzsche non dice che disprezza Platone. Anzi, con questa frase, ammette di onorarlo, seppure in misura minore.
Per quanto riguarda Socrate, la rivalutazione è ancora più evidente. Intorno al 1876, Nietzsche legge i Memorabili di Senofonte e scopre un Socrate diverso da quello tramandatoci dai dialoghi platonici. Incontra, per sua sorpresa, un saggio degno di ammirazione. Il Socrate di Platone «è propriamente una caricatura», giacché «sovraccarico di qualità che mai si potranno incontrare in una persona sola». Al contrario, i Memorabili offrono del vecchio Sileno «un’immagine realmente fedele». È una lettura, scrive Nietzsche in uno dei suoi frammenti postumi, «che trafigge il cuore e insieme rende felici» (Nietzsche 1965: 342).
In Umano troppo umano, Nietzsche auspica addirittura un mondo in cui il filosofo ateniese prenda il posto di Gesù come guida spirituale dell’umanità: «Se tutto va bene, verrà un tempo in cui, per promuovere il proprio progresso morale e intellettuale, si prenderanno in mano i Memorabili di Socrate più della Bibbia… Rispetto al fondatore del cristianesimo, Socrate ha in più quel modo gaio di essere seri e quella saggezza piena di bricconate, che sono la migliore condizione spirituale dell’uomo. Aveva inoltre un’intelligenza più grande» (Nietzsche 1993 a: 824).
Quando, al pari di Platone, Senofonte imbastisce l’apologia di Socrate, ingiustamente condannato dai suoi concittadini, oltre a respingere le accuse di ateismo e di corruzione morale, si premura significativamente di difenderlo anche dall’accusa di non curare il proprio corpo o di indurre i giovani a non esercitare il loro. La questione era, evidentemente, di capitale importanza. Non a caso, alcune pagine dei Memorabili sono dedicate al rimprovero che Socrate rivolge al giovane Epigene, per la sua trascuratezza. «Che corpo poco curato hai, Epigene!», così comincia il frammento. La risposta del giovane («Infatti, Socrate, non sono un atleta!») viene poi demolita inesorabilmente (Senofonte 2013: 517-521). L’esortazione socratica a cambiare stile di vita si basa su tre principali argomenti: la prudenza, l’immoralità dei deboli e l’influsso che la forma del corpo ha sulla mente. Innanzitutto, dice, «quelli che hanno i corpi in buone condizioni sono sani e forti: e molti per questo motivo, si salvano decorosamente negli scontri militari e scampano da tutti i pericoli». I deboli, in un mondo segnato dalla lotta, finiscono uccisi o schiavi, e dunque è prudente allenarsi anche se la città non impone gli esercizi fisici a tutti cittadini. Inoltre, chi si salva nonostante la debolezza, lo fa in genere per ignominia, fuggendo, e così facendo non difende i vecchi, le donne, i bambini. Si configura così anche una dimensione morale e altruistica delle attività ginniche. Queste le parole di Socrate: «molti, poi, aiutano gli amici e fanno del bene alla patria e per questo sono degni di gratitudine, acquistano una grande fama e ottengono splendidi onori…». Infine, chi cura il proprio corpo cura anche la propria mente, giacché «la perdita della memoria, l’ansia, il cattivo umore e la follia spesso colpiscono la capacità intellettiva, così da eliminare la cognizione, a causa della cattiva salute fisica». La conclusione di Socrate è perentoria: chi non ha cura del proprio corpo e lo lascia invecchiare deve vergognarsi.
Nel Simposio, Senofonte narra di un Socrate che danza, beve vino e, scherzosamente, mette la propria bellezza silenica a confronto con quella apollinea di Critobulo, per contendergli un ambito premio: il bacio di una danzatrice e di un danzatore. Premio che si aggiudicherà Critobulo. Socrate teorizza, come nei dialoghi platonici, la superiorità dell’eros spirituale sull’eros fisico. Lo fa rivolgendosi in particolar modo a Callia, il padrone di casa, il quale ha organizzato il banchetto in onore di Autolico, un giovane atleta divenuto celebre per avere vinto il pancrazio alle Panatenee del 422 a.C. e di cui è “innamorato”. Socrate invita Callia e Autolico a vivere questo amore in modo puro e, del resto, afferma di non avere dubbi in proposito, giacché tra gli invitati c’è anche Licone, il padre del fanciullo. Socrate afferma che c’è differenza tra l’amore per i ragazzi, che deve fermarsi all’ammirazione per la loro bellezza esteriore e le loro qualità morali, e l’amore per le donne che può invece prendere anche la via della soddisfazione carnale. Non a caso, quando alla fine del simposio, Arianna e Dioniso, i due giovani e attraenti danzatori della troupe del Siracusano, si baciano ardentemente sulla scena, i commensali corrono dalle mogli a concupire o, se celibi, si convincono che è giunta l’ora di prendere moglie.
Quando Senofonte tesse l’elogio della bellezza di Autolico, esaltandone l’eleganza e la regalità, il confine tra l’ammirazione estetica e la venerazione estatica si stempera.
…come una luce che appare di notte attira gli sguardi di tutti, così allora la bellezza di Autolico faceva volgere su di sé gli occhi di tutti; poi, nessuno di coloro che lo vedevano poteva evitare di sentirsi l’animo turbato da lui. Alcuni diventavano taciturni, altri assumevano un certo contegno. Tutti coloro che sono posseduti dagli dèi sembra siano degni di essere osservati; ma mentre coloro che sono posseduti da altre divinità diventano terribili a vedersi, emettono voci spaventose e sono violenti, coloro che sono posseduti dall’Eros pudico hanno sguardi affettuosi e voce dolce e rendono i loro comportamenti più nobili. Callia, che allora faceva queste cose a causa dell’Eros, era degno di essere visto dagli iniziati al culto di questo dio. (Senofonte 2013: 865-867)
Ma anche il Socrate che ci tramanda Platone è ben lontano dal porre in discredito la bellezza esteriore, in nome di quella interiore. Anzi, tanto per l’allievo quanto per il maestro, è proprio attraverso l’apprezzamento della bellezza e l’amore per i corpi che si raggiunge l’elevazione spirituale, la tensione dell’anima verso il mondo delle idee, la conoscenza del Bene. Questo è un aspetto fondamentale del loro pensiero. Socrate e Platone concepiscono l’amore come visuale, e dunque sensuale, anche se non necessariamente carnale. La bellezza dei corpi è sacra, perché rimette le anime che ricadono sulla Terra, per via della metempsicosi, in contatto con la divinità che hanno conosciuto nell’Iperuranio.
C’è un passaggio nel Fedro, in cui Socrate spiega come la vista di un bel corpo eleva l’anima, mettendole le ali. Inizia con il dire che la vista è la più acuta delle sensazioni. Dice che essa non può cogliere tutte le realtà degne d’amore. Per esempio, guardando una persona non capiamo se essa possiede la saggezza. Per cogliere questo aspetto, dobbiamo interagire verbalmente. Inoltre, critica chi riduce l’apprezzamento della bellezza a mero soddisfacimento degli appetiti sessuali e che «consegnandosi al piacere imprende a montare e a generare figli a mo’ di quadrupede». Tuttavia, da queste constatazioni, non segue quella svalutazione della bellezza corporale che – come abbiamo visto – viene da più parti rimproverata al cristianesimo. Anzi, per i Greci, l’uomo animalesco che si getta su qualsiasi preda in cerca di piacere immediato è propriamente chi è incapace di venerare la bellezza dei corpi, chi non riesce ad apprezzarla da un punto di vista squisitamente estetico, a trarne piacere dalla sola vista. Chi cade nella sessualità istintiva e grossolana è precipuamente chi non riesce a contemplare l’idea del bello.
Chi invece è iniziato da poco ed ha contemplato molto degli oggetti di allora, quando scorge un volto d’aspetto divino, buona imitazione della bellezza, o qualche forma corporea, dapprima rabbrividisce ed è invaso da qualcuno degli sgomenti di allora, poi contemplandolo lo venera come un dio e, se non avesse paura della taccia di follia completa, farebbe sacrifici all’amato come a un simulacro e a un dio. Alla sua vista, come succede al passar del brivido, lo prende un mutamento, un sudore e un calore insolito, perché avendo ricevuto attraverso gli occhi l’afflusso della bellezza, ne è riscaldato là dove la natura dell’ala ne è irrorata (Platone 1981: 183-184).
Come si può notare, la spiritualità di Socrate e Platone presenta peculiarità che non si ritrovano nella teologia cristiana. Le stesse premesse ontologiche e soteriologiche sono diverse. Essi concepiscono un universo che è eterno e increato, il quale ha un’anima divina, così come sono divine le anime degli uomini che si reincarnano e fanno ciclicamente la spola tra il mondo delle idee e il mondo terreno. Se è vero che il corpo è prigione dell’anima, giacché la libertà dell’anima nel mondo Iperuranio è incomparabilmente superiore a quella nel mondo terreno, è anche vero che con i corpi – quello attuale e quelli futuri – bisogna fare i conti per l’eternità. La corporeità è una condizione ineluttabile, giacché il ciclo di morti-e-rinascite è infinito. A questo punto diventa razionale scegliere il corpo migliore, quando ci si reincarna, e coltivare la bellezza e la forza di questo corpo fintanto che esiste. Non c’è un passaggio unico, come nella soteriologia cristiana, che giustifica un radicale disprezzo del corpo, il contemptus mundi. Inoltre, poiché le idee eterne informano tutti gli oggetti terrestri, sebbene imperfettamente a causa degli errori del Demiurgo, ecco che la vista di un corpo bello e apparentemente perfetto, non fa che porci in contatto con il divino. Per tale ragione, l’espressione “culto del corpo” – espressione che evoca sacralità, venerazione, adorazione della bellezza fisica – è ben più che metaforica, nell’ambito della dottrina platonica. E però, per ritrovare un’accettazione genuina del mondo e della vita, Nietzsche ci invita a risalire ancora più indietro, alla Grecia omerica.

7. Il culto del corpo nella Grecia di Omero
A domanda, Nietzsche (1993 a: 761) risponde: «Da dove han ricevuto i greci questa libertà, questo senso del reale? Forse da Omero e dai poeti che l’hanno preceduto…». D’altronde, pare più che ragionevole cominciare dal padre della letteratura greca, considerando che l’Iliade e l’Odissea sono stati per la civiltà antica, e forse anche per l’élite europea moderna, ciò che la Bibbia e il Vangelo sono stati per la civiltà medievale: libri sacri. È sufficiente sfogliare questi libri, per cogliere la grande considerazione che i Greci avevano per il corpo. Achille, il più forte degli Achei, è descritto come agile, alto, giovane, bello, robusto. E, in genere, gli Dèi, gli eroi e i guerrieri del poema rivaleggiano sotto il profilo della bellezza, della forza, dell’abilità, delle virtù fisiche, oltreché morali. Si veda per esempio la descrizione di Aiace, il più alto dei guerrieri e secondo per forza al solo Achille: «Qui vide un terzo il re d’eccelso e vasto corpo, ed inchiese: Chi quell’altro fia che ha membra di gigante, e va sovrano degli omeri e del capo agli altri tutti? – Il grande Aiace, rispondea racchiusa nel fluente suo vel la dìa Lacena, Aiace, rocca degli Achei» (Homerus 1996: 48).
La bellezza è individuata innanzitutto nell’altezza e nella grandezza del corpo. Aiace è bello perché sovrasta le teste e le spalle di tutti gli altri guerrieri. Poco sotto, si celebra anche la bellezza di un altro guerriero: «Quell’altro dall’altra banda è Idomenèo: lo vedi? ritto in piè fra’ Cretensi un Dio somiglia, e de’ Cretensi gli fan cerchio i duci» (Ibidem). Idomenèo è degno di nota in quanto deiforme. Già nell’Iliade troviamo, dunque, quella dimensione religiosa della bellezza corporale di cui parlerà Platone. Il bello è una qualità che appartiene innanzitutto alle divinità e di cui gli uomini eccezionali sono partecipi.
La bellezza è apprezzata e riconosciuta anche nelle schiere nemiche. Con queste parole Omero presenta lo schieramento dei Troiani: «ecco Alessandro nelle prime apparir file troiane bello come un bel Dio» (Homerus 1996: 43). E quando Enea sciorina il suo albero genealogico non tralascia di menzionare la divina bellezza dell’antenato Ganimede, del quale lo stesso Zeus si è innamorato: «D’Erittònio nacque Tröe re de’ Troiani, e poi di Troe generosi tre figli Ilo ed Assàraco, e il deïforme Ganimede, al tutto de’ mortali il più bello, e dagli Dei rapito in cielo, perché fosse a Giove di coppa mescitor per sua beltade, ed abitasse con gli Eterni» (Homerus 1996: 328).
Significative sono anche le lotte che si compiono per recuperare i corpi dei guerrieri morti, considerati importanti non meno della vita dei guerrieri che se li contendono, per farne scempio o per preservarli. È nella memoria di tutti i lettori dell’Iliade l’aspra contesa sul corpo di Patroclo. La Dea Teti, alla preoccupazione di Achille che il corpo del fratello possa imputridire ed essere mangiato dai vermi, risponde rassicurante: «Ov’anco ei giaccia intero un anno, farò sì che il corpo incorrotto ne resti, e ancor più bello» (Homerus 1996: 314).
Fin qui abbiamo parlato di corpi maschili. Non mancano, naturalmente, nei poemi omerici, riferimenti alla bellezza dei corpi femminili. Anzi, la bellezza dei corpi femminili prende il sopravvento, nelle valutazioni, sulle stesse qualità intellettuali e morali delle donne che li posseggono. È noto che i popoli indoeuropei, e quello greco non fa eccezione, erano di struttura patriarcale e le donne venivano talvolta trattate alla stregua di meri oggetti di piacere. Il saggio Nestore rimprovera re Agamennone per il torto fatto ad Achille, uomo ammirato e rispettato anche dagli Immortali. Il torto consiste nell’aver prelevato a forza dalla tenda dell’irato Achille la giovinetta Brisëide. Agamennone riconosce di aver sbagliato e promette che colmerà Achille di doni. Oltre a ridargli Brisëide, giurando di non avere “calcato” il suo letto, offre cavalli di razza e altri regali, e annuncia di volergli dare in dono «di suprema beltà sette captive lesbie donzelle a meraviglia sperte nell’opre di Minerva, e da me stesso trascelte il dì che Lesbo ei prese». Inoltre, aggiunge che, se gli Dèi gli concederanno di saccheggiare la città di Troia, consentirà ad Achille, «nel partir delle spoglie, a ricolmarsi d’oro e bronzo le navi» e di scegliere «venti bei corpi di dardanie donne dopo l’argiva Elèna le più belle» (Homerus 1996: 138).
Questi corpi femminili non sono descritti in modo dettagliato, ma sappiamo che, per Omero, i maschi sono belli quando hanno membra armoniose e possenti, mentre le femmine eccellono quando hanno occhi cerulei, guancie rosate e bianche braccia. A giudicare dalle sculture di epoca successiva, l’ideale di bellezza greco è androgino. Uomo e donna convergono verso una stessa forma corporea. Altezza, forza, proporzione, grazia sono comuni a entrambi i tipi di bellezza. Nel momento in cui Platone emancipa idealmente la donna, affermando che nella sua Repubblica anch’essa può essere guerriera e filosofa, può difendere e guidare la polis, può lottare nuda nelle palestre insieme ai maschi, ci sta dicendo che la donna si può emancipare soltanto assomigliando all’uomo, sul piano fisico e spirituale. Ma anche all’uomo è chiesto di somigliare alla donna, nella grazia e nell’eleganza dei movimenti.
Nietzsche (1993 b: 975) avverte i suoi contemporanei che, per capire davvero i Greci, è necessario soffermarsi su questo aspetto della loro cultura: «Che cos’è mai il nostro chiacchierare dei Greci? Che cosa comprendiamo della loro arte, la cui anima è la passione per la nuda bellezza maschile! – Solo a partire da questa essi percepivano la bellezza femminile. Così avevano una prospettiva completamente diversa dalla nostra. E le cose stavano in modo analogo con il loro amore per le donne: essi veneravano in modo diverso, disprezzavano in modo diverso».
Gli esempi potrebbero continuare a lungo. Ma non è forse normale che gli eroi vengano rappresentati come forti, belli e virtuosi? Non è così anche nel cinema holliwoodiano e nella cultura popolare contemporanea? Certamente, è così. Ma nel considerare tutto ciò normale, dimentichiamo che non tutte le culture condividono gli stessi valori. Mentre i Greci esaltano l’eroe perché bello come un Dio, i primi cristiani descrivono e rappresentano il proprio Dio, Gesù Cristo, come brutto, di bassa statura, tarchiato, malvestito, talvolta persino deforme. A sostenere la tesi della bruttezza fisica di Gesù troviamo, tra gli altri, Isaia (nella profezia), San Paolo, Origene, San Clemente Alessandrino, San Cirillo Alessandrino, Tertulliano e Sant’Agostino. In altre parole, per dirla con Calmèt (1731: 76), «i più antichi Padri crederono, che Gesù Cristo non fosse bello: ed era questa l’oppinione de’ primi fedeli. I Pagani ne facevan loro una specie di rimprovero, ma i Cristiani non solo non se ne difendevano, anzi in certo modo se ne gloriavano».
In effetti, il pagano Celso utilizzava questo argomento per negare la divinità di Cristo. Può un Dio essere brutto, se la bellezza è qualità divina al pari dell’immortalità e della felicità? Clemente Alessandrino rispondeva alle accuse dei pagani ribaltando la scala assiologica dei valori: «il Capo della Chiesa è venuto in carne senza corporale bellezza per insegnarci ad innalzare i nostri cuori ad oggetti invisibili, e di materia spogliati». E ancora: «Non è senza ragione, che il Signore sia voluto comparire in figura vile, e dispregevole, ciò fece, acciocché l’uomo non si attaccasse alla bellezza corporale, non mancasse di por mente alla parola di Dio, e non perdesse la stima delle cose spirituali e divine» (Cit. da: Calmèt 1731: 73).
Siamo dunque di fronte ad un cambiamento radicale di prospettiva. Non vi sono più due soggetti che discutono la verità o la falsità di un giudizio di fatto all’interno dello stesso quadro assiologico. Vi sono due paradigmi, due sistemi morali, due visioni del mondo contrastanti che si scontrano. Nei primi secoli del I millennio, siamo di fronte a uno “scontro di civiltà”.
Se oggi lo scontro si è assopito, resta comunque la dissonanza assiologica. Nel cristianesimo delle origini troviamo la radice di quella saggezza popolare che vuole la bellezza autentica essere una “bellezza interiore”. Chi afferma che “è bello chi è bello dentro”, riconferma la visione del mondo cristiana. Ma la cultura popolare contemporanea è caratterizzata dalla compresenza delle due visioni, giacché permane anche l’idea pagana che un eroe, un semidio, un Dio, non possano essere brutti. Chi, ancora oggi, rimane perplesso di fronte all’ipotesi che Gesù Cristo, un essere divino, fosse brutto e deforme, basso e tarchiato, sente e ragiona come Celso, come un pagano. Questa perplessità può, naturalmente, nascere dal fatto che siamo stati esposti per secoli a un’iconografia cristiana che ci presenta Gesù come uomo di grande bellezza, fiero, elegante nella postura. Gli artisti, specialmente a partire dal Rinascimento, hanno completamente ribaltato la rappresentazione dei Padri della Chiesa. Del resto, hanno anche ribaltato la rappresentazione iconografica del diavolo, dipingendolo come brutto, talvolta mostruoso, un ibrido uomo-animale, simile a un satiro, mentre le Sacre Scritture ci dicono chiaramente che Lucifero era «il più bello degli angeli» e uno spirito perfetto, inferiore a Dio soltanto. L’arte rinascimentale ha rigirato come un guanto l’iconografia sacra, perché è tornata ai valori pagani, pre-cristiani, che vogliono una perfetta coincidenza di bellezza e bontà, da un lato, e di bruttezza e cattiveria, dall’altro.
La contro-rivoluzione che osserviamo nell’arte sacra è stata preparata da una lunga fase di elaborazione teorica. Gli autori cristiani che sostengono la bellezza di Cristo sono legione. Per esempio, Niceforo descrive Gesù come bellissimo di volto, molto alto, con capelli biondi e lunghi, ciglia nere, occhi grandi tendenti al giallo, barba nera e cortissima, naso lungo, carnagione color del frumento. Nota Calmèt (1731: 65) che questa era «l’idea, che i Greci del secolo decimo quarto avevano della bellezza di Gesù Cristo», ma aggiunge che «elli parlavanne secondo il lor gusto». I cristiani greci di Costantinopoli hanno trasformato Gesù Cristo in un Dio greco. E forse non poteva essere altrimenti. I cristiani latini di Roma hanno poi seguito la stessa strada, arrivando a trasformare in divinità greco-romane anche gli altri personaggi biblici. Si pensi soltanto al David di Michelangelo.
Per chiudere il cerchio, è opportuno mostrare come ai Greci sia tornato lo stesso Foucault. Dopo avere individuato l’inizio della biopolitica nell’età classica francese – l’età che segna la nascita delle monarchie assolute, degli stati nazionali, dello stesso capitalismo – inizia a spingersi sempre più indietro fino ad arrivare all’età classica per eccellenza, quella delle polis greche. Se inizialmente Foucault cerca di mostrare come l’austerità sessuale e la denigrazione del corpo che caratterizzano il cristianesimo siano precorse da certe idee del mondo classico antico, al termine del percorso di studio, dopo la pubblicazione del terzo volume della sua Storia della sessualità, La cura del sé, ripropone sic et simpliciter la narrazione nietzscheana.
In un’intervista rilasciata all’italianista Alessandro Fontana, apparsa su Panorama il 28 maggio 1984 e poi riprodotta in forma più estesa su Le Monde nel luglio dello stesso anno, alla domanda se la sua storia della sessualità fosse una nuova genealogia della morale, Foucault (2001: 208) risponde che lo è, in effetti, anche se non lo ha esplicitato nel titolo «per la solennità di questa espressione e l’impronta grandiosa che vi ha lasciato Nietzsche». Fontana gli chiede allora se è lecito parlare dell’esistenza di due morali diverse e contrapposte. Così come Nietzsche parla di morale dei padroni e morale degli schiavi, Foucault, in uno scritto apparso nel novembre del 1983 in «Le Débat», parla di morali indirizzate verso l’etica e di morali indirizzate verso il codice. L’intervistatore gli chiede se si riferisce alla differenza tra le morali greco-romane e quelle nate con il cristianesimo. Questa la risposta dell’intellettuale francese.
Con il cristianesimo vediamo instaurarsi lentamente, progressivamente, un cambiamento rispetto alle morali antiche che erano essenzialmente una pratica, uno stile di libertà. Naturalmente c’erano anche certe norme di comportamento che regolavano la condotta di ciascuno. Ma la volontà di essere un soggetto morale, la ricerca di un’etica dell’esistenza, nell’Antichità, erano principalmente uno sforzo per affermare la propria libertà e per dare alla propria vita una certa forma entro la quale ci si potesse riconoscere, si potesse essere riconosciuti dagli altri, e la stessa posterità potesse trovare un esempio. Questa elaborazione della propria vita come opera d’arte personale, anche se obbediva a dei canoni collettivi, nell’Antichità era al centro, mi sembra, dell’esperienza morale, della volontà di morale, mentre nel Cristianesimo, con la religione del testo, l’idea di una volontà di Dio, il principio di una obbedienza, la morale assumeva molto di più la forma di un codice di regole (Foucault 2001: 208-209).
A questo punto, Foucault spiega il motivo per cui si è interessato all’Antichità, tornando sulle tracce dei Greci e dei Romani. Non si tratta di una pura curiosità storica. Egli è convinto che solo così si può capire la società del presente, giacché è avvenuto un nuovo ribaltamento di paradigma, con l’avvento della Modernità, che ha riportato in auge i valori pre-cristiani. Più precisamente, l’intellettuale francese afferma di essere tornato agli antichi, «perché l’idea di una morale come obbedienza ad un codice di regole, per tutta una serie di ragioni, attualmente è sul punto di scomparire, è già scomparsa. E a questa assenza di morale corrisponde, deve corrispondere una ricerca che è quella di una estetica dell’esistenza». Il suo stesso lavoro, il sapere accumulato sulla sessualità e la biopolitica, ha contribuito a questo ribaltamento. È quasi un testamento questa intervista, considerando che la morte coglierà lo studioso francese un mese più tardi. Facendo il punto sulla sua vita intellettuale, Foucault (2001: 209) afferma: «Non posso non pensare che sia stato estremamente benefico aver rimesso in discussione, anche indipendentemente dalle scelte politiche, tutta una serie di cose attorno a certe forme d’esistenza, regole di comportamento, ecc.: rapporti con il corpo, tra uomo e donna, con la sessualità».

Conclusioni
Qui abbiamo posto in evidenza un possibile percorso a ritroso. Naturalmente avremmo potuto seguirne altri. Abbiamo fatto un salto da Nietzsche ai Greci, tralasciando ciò che c’è nel mezzo, perché il filosofo di Sils-Maria attinge direttamente da essi, anzi comincia da essi il proprio percorso intellettuale, con La nascita della tragedia. Foucault, invece, arriva ad essi al termine del proprio percorso di studio. Ciò che emerge dall’opera di scavo è che il culto del corpo non è un novum nella storia dell’Occidente, né tantomeno un figlio del nichilismo, della perdita dei valori, della società liquida. Dobbiamo allora allargare gli orizzonti e ammettere che quello evidenziato da Bauman è soltanto uno dei meccanismi in campo. Possiamo partire da esso, ma dobbiamo avere l’accortezza di non lasciarlo solo.
Meccanismo immunitario. Le osservazioni di Bauman possono aiutare a comprendere in parte il fenomeno del culto del corpo. Ci pare che un concetto capace di descrivere piuttosto bene quanto mette in evidenza il sociologo polacco sia quello di immunizzazione. Su questo tema ha già scritto ampiamente Roberto Esposito (2002, 2004), e ai suoi libri rimandiamo per un approfondimento. È possibile che una certa percentuale di individui nel mondo contemporaneo persegua il benessere e la bellezza corporea per mancanza di altri ideali e perché non può più identificarsi in un corpo collettivo durevole. Il corpo individuale diventa così uno spazio da fortificare e difendere. Lo stesso meccanismo può agire anche a livello di intere comunità, che si chiudono a difesa del proprio spazio collettivo. Tuttavia, una forte obiezione alla generalizzazione di questo meccanismo è rappresentata dal fatto che a dare maggiormente impulso alla religione del corpo sono stati proprio quei regimi che si sono creduti, sono stati creduti, o si credono eterni. E che non sono comunità di destino ripiegate su se stesse, ma piuttosto votate all’espansione. Il Terzo Reich si presenta al mondo come “millenario”; il regime fascista come erede dell’Impero Romano; l’Unione Sovietica come lo stato definitivo dell’umanità; e gli Stati Uniti d’America come incarnazione di una “eccezionalità” che il mondo intero è chiamato a seguire. Del pari, millenarie o destinate all’eternità si credevano l’Ellade e l’antica Roma, ove la religione del corpo era saldamente instaurata.
Meccanismo biopolitico. La grande attenzione all’estetica dei corpi, all’alimentazione, alla salute, alla ginnastica, documentata nell’Antichità, non nasceva come reazione ansiosa dell’individuo al venire meno di grandi ideali comunitari, ma era promossa dalle élite proprio in funzione degli ideali comunitari. Era frutto di una biopolitica. Nasceva in seno a società militari, nazioni armate dedite alla razzia più che ai commerci, ove dalla forza dei corpi dipendeva non solo la sicurezza collettiva, ma anche l’appropriazione di beni vitali; ove il culto del corpo non aveva significato soltanto edonistico, ma anche politico, morale, religioso. Certamente, il declino di interesse nella forza e nella bellezza del corpo si registra già in alcuni pensatori nell’Antichità, ma è nel Medioevo che l’ideologia del contemptus mundi registra il proprio trionfo. Il culto contemporaneo del corpo e l’ideale del suo potenziamento rappresentano dunque la ripresa di un tema “pagano”, seppure in un contesto inedito, caratterizzato dalla presenza di nuove potenti tecnologie biomediche.
Meccanismo memetico verticale. Per il concetto di “meme” (e di memetica) rimandiamo naturalmente a Richard Dawkins (1995) o a Susan Blackmore (1999), ma, se questo approccio pare problematico, ci si può rifare anche al semplice concetto di “idea” come definito da Arthur Lovejoy (1940). Attraverso un meccanismo di replica, mutazione e selezione dei memi, o delle idee, l’europeo mediamente colto si è nutrito di grecità, anche senza avere dedicato la propria vita alla filosofia o all’archeologia dei saperi, come Nietzsche e Foucault. L’élite europea, dal Rinascimento in avanti, si è formata su Omero e Cicerone, forse ancor più che sull’Antico e il Nuovo Testamento. Attraverso un meccanismo di trasmissione verticale, dall’alto al basso, tipico della Taxis, dell’ordine costruito, questi memi hanno raggiunto gli strati più bassi della popolazione. Con la scolarizzazione obbligatoria, l’Iliade e l’Odissea hanno difatti affiancato i due libri sacri giudeo-cristiani nel bagaglio formativo di ogni cittadino. Queste letture non possono non aver lasciato traccia. E chi non è stato esposto alle tracce primarie è rimasto esposto a tracce secondarie. In un frammento intitolato “I libri europei”, in Umano, troppo umano, Nietzsche (1993 a: 853-854) fa un’osservazione estremamente interessante: «Leggendo Montaigne, La Rochefoucault, La Bruyère, Fontenelle (soprattutto quello dei Dialogues des morts), Vauvenargues, Chamfort, si è più vicini all’antichità che con qualsiasi altro gruppo di sei autori di altri popoli. Grazie a quei sei è risorto lo spirito degli ultimi secoli dell’èra antica – essi formano un anello importante nella vecchia non ancora interrotta catena del Rinascimento. […] Ma per esprimere una lode chiara: scritti in greco, sarebbero stati compresi anche dai greci». Al contrario – aggiunge Nietzsche – Platone avrebbe avuto difficoltà a comprendere gli autori tedeschi. Il loro stile, la loro oscurità, la loro pedanteria, lo avrebbero certamente irritato. «Invece che luminosità e delicata precisione in quei francesi!». La cultura francese dell’âge classique sfocia poi nell’Illuminismo, nella rivoluzione francese (che pure Nietzsche vedeva come uno sbocco deleterio di premesse culturali indispensabili), nelle guerre napoleoniche, e come un fiume in piena travolge l’Europa e l’America. Questo processo ci riporta alla grecità, in assenza dei Greci. Certe idee circolano principalmente tra le élite, ma sono proprio le élite che scrivono le Costituzioni e le leggi che poi plasmano, anche attraverso le discipline, il comportamento dei cittadini.
Meccanismo memetico orizzontale. La maggior parte delle persone, più che alla letteratura colta, è esposta ai messaggi veicolati dai mass media: cinema, fumetti, televisione, radio, musica pop, ecc. Questi messaggi si diffondono in modo orizzontale, non coercitivo, e contribuiscono a formare un ordine spontaneo, o Kosmos. Non bisogna però scordare che i creatori dei contenuti “popolari” hanno mediamente una cultura superiore a quella degli utenti. Per fare solo un esempio, molti supereroi della Marvel sono ispirati a Dèi pagani. Nei fumetti compaiono le divinità olimpiche e quelli norrene, in modo esplicito o trasfigurato. Si pensi soltanto alla saga di Thor. Ma anche i personaggi di altre saghe sono talvolta ispirati a divinità indoeuropee. Quicksilver è un alias di Hermes, il messaggero degli Dèi. La Medusa della Marvel che fronteggia i Fantastici Quattro è esplicitamente ispirata alla guardiana della mitologia greca. Quand’anche si ammetta che alcuni supereroi assumono la funzione del messia, del salvatore della tradizione giudeo-cristiana, il che non sorprende se si considera che nascono in una cultura impregnata di ebraismo e calvinismo come quella americana, resta il fatto che sul piano iconografico si approssimano comunque a divinità greche, traboccanti di forza fisica. Il capostipite di tutti i supereroi, Superman, è emblematico in questo senso. Il suo vero nome è Kal-El, mentre quello di suo padre è Jor-El. “El” è uno dei nomi di Dio nella Bibbia ebraica e, più in generale, una divinità del pantheon semitico mesopotamico e siro-palestinese. Viene trovato e cresciuto da una famiglia terrestre, due anziani contadini che non possono avere figli. Non mancano, dunque, memi biblici. I due ideatori, Jerry Siegel e Joe Shuster, entrambi ebrei, affermano però di essersi inizialmente ispirati al superuomo di Nietzsche. Nelle prime storie, Superman è una mente malefica con incredibili poteri psichici. Quando Adolf Hitler appare sulla scena e si appropria delle idee del filosofo tedesco, i due autori decidono di cambiare completamente la personalità del supereroe, mettendolo al servizio del bene e dell’umanità. Tuttavia, restano invariate le caratteristiche fisiche, la forza, il corpo muscoloso, la regolarità dei lineamenti del viso, la presenza di un “tallone d’Achille” (la kryptonite). Intere generazioni di bambini hanno scelto, e ancora scelgono, come modelli da imitare, o i grandi divi dello sport e dello spettacolo, che giustamente Francesco Denti e Fabrizio Saulini chiamano «dèi pagani del XX secolo», oppure i supereroi dei videogiochi e dei film che abbiamo appena menzionato. Crescono dunque con l’idea che i migliori, gli aristoi, hanno di necessità un corpo possente e ben modellato. Difficilmente, scelgono come modelli Sant’Agostino o Clemente Alessandrino, che vedono nella religione del corpo un ostacolo sulla strada per la vita eterna.
Meccanismo osmotico. I cittadini occidentali sono anche esposti quotidianamente a un ambiente ereditato dal passato, ricco di simboli, con il quale entrano in osmosi. L’assuefazione ai simboli, percepiti come parti di sé, comporta un senso di disagio quando essi vengono deturpati o rimossi. Non c’è bisogno di abbeverarsi alla cultura libresca, per fare proprio il culto del corpo della civiltà greco-romana, poi traslato in quella cristiana ellenizzata. In Italia siamo letteralmente circondati da monumenti, sculture e dipinti dell’Antichità, del Rinascimento, e delle epoche successive che espongono corpi nudi. Questi corpi nudi sono nei musei come nelle piazze, nelle collezioni private come nelle chiese, nei negozi di souvenir come nei siti archeologici. Sono parte del nostro ambiente quotidiano e di conseguenza di noi stessi. Essi sono una presenza viva che tocca le coscienze anche di chi non appartiene al ceto colto, attraverso la mera esposizione visiva. E non è certo un caso se, nei paesi musulmani, i militanti dello Stato Islamico di Iraq e Siria hanno fatto scempio di statue e templi pagani. Istintivamente, gli jihadisti comprendono la potenza del meccanismo osmotico. Se si tiene presente l’aspetto dell’osmosi, si comprende meglio anche la sdegnata reazione di gran parte degli italiani alla notizia che le statue nude dei Musei Capitolini sono state coperte, in occasione della visita del presidente della Repubblica islamica dell’Iran, Hassan Rouhani, del 25 gennaio 2016, «in forma di rispetto alla cultura e alla sensibilità iraniana». La copertura delle statue è diventata un caso politico, perché l’esibizione di corpi nudi è profondamente radicata nella cultura occidentale. Quando si parla di radici culturali si fa spesso riferimento alle “radici cristiane”, la cui difesa prende forma nella preservazione di simboli come il crocifisso o il presepe, considerati baluardi da difendere contro l’invasione islamica. In questa narrazione scompaiono però due questioni fondamentali. La prima è che le radici più profonde dell’Occidente sono greco-romane, tanto che le statue di corpi nudi che decorano gli ambienti interni ed esterni rappresentano per lo più eroi e Dèi pagani. La seconda è che lo stesso cristianesimo è stato fortemente ellenizzato e romanizzato, tanto che la stessa divinità dei cristiani è rappresentata come “corpo nudo”, sulla croce o nella mangiatoia.
Qualcuno ritiene che il cristianesimo, per quanto trasfigurato, attraverso la svalutazione del corpo, abbia portato un po’ di compassione e di umanità in un mondo spietato, segnato dalle guerre e dalla competizione, ponendo le basi per la non discriminazione dei deboli, degli afflitti, dei perdenti. Il cristianesimo non chiede ai forti di scomparire, ma di portare sulle spalle i deboli. Qualcun altro ritiene invece che il cristianesimo, anche ammesso che fosse animato da buone intenzioni, abbia avuto un effetto nefasto, assopendo per almeno dieci secoli gli istinti più vitali dell’uomo e infiacchendo l’indole di interi popoli. Qualunque sia la nostra personale posizione su questa controversia, resta il fatto che la dissonanza assiologica che investe il culto dei corpi riflette quel conflitto tra Atene e Gerusalemme che si trascina ormai da migliaia di anni, in seno alla civiltà europea.



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Fonte: www.rivistadiscienzesociali.it


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